ASSOCIAZIONE CULTURALE CARLO SISMONDA
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Giuseppe Augusto Levis

Contributi critici e Approfondimenti
Biografia Giuseppe Augusto Levis. Antonio D'Amico
Giuseppe Augusto Levis e il diario dipinto del quotidiano. Antonio D’amico
Giuseppe Augusto Levis e il diario dipinto del quotidiano

L’incontro con la pittura sincera di Giuseppe Augusto Levis giunge sul crinale di un secolo che in Piemonte ha visto protagonista dapprima l’affasciante esperienza della Scuola di Rivara, dove trionfa la natura con estrema perizia oggettiva, la quale in anni successivi è declinata con l’aggiunta di un pathos struggente, visibile nelle opere più mature di Vittorio Avondo, punta di diamante dei paesaggisti dal vero della fine dell’Ottocento piemontese. In questo clima di adesione al reale s’inserisce la lettura introspettiva sul paesaggio di Lorenzo Delleani che “costituiva allora per il Piemonte l’avanguardia artistica, l’eredità di Fontanesi, ciò che già gli Impressionisti erano stati per la Francia, i Macchiaioli e i pittori della Scuola di Posillipo per l'Italia. La rivoluzione concettuale nei confronti del vero preannunciata dalla Scuola di Rivara trovava in Delleani per la prima volta corrispondenza fra contenuto ed espressione” . Delleani difatti raggiunge una perfetta “sintesi plastico-luminosa”, avvalorata da una persistente componente romantica che lo conduce a dare forma a un “innato bisogno di atmosfera” e lo spinge “a superare la contingenza del reale e a ritrarre, come veri, paesaggi sognati” . Il suo linguaggio pittorico, che chiude un secolo e apre il Novecento piemontese, è frutto probabilmente di una “folgorazione” per De Nittis che aveva visto all’Esposizione Nazionale di Torino del 1880, associato alla meditazione sulle opere di Fontanesi e teso verso il desiderio di raccontare ciò che lo circonda puntando all’essenziale, alla verità. È in questo clima che emerge il racconto pittorico di Giuseppe Augusto Levis , ad apertura del cosiddetto secolo breve, in un momento nel quale, altrove, avanzavano i venti della modernità.
Dal 1872 Delleani è chiamato a far parte della commissione per i concorsi annuali all’Albertina ed è annoverato tra i soci onorari dell’istituzione torinese, nella quale però non ha mai effettivamente
insegnato. Ciò nonostante, a inizio secolo, i due s’incontrano, verosimilmente in Accademia, e si scelgono per intraprendere un percorso di alunnato che porterà Levis a ripercorrere le orme del maestro, non solo nell’utilizzo cromatico della tavolozza, ma anche lungo viaggi fisici e immaginari che giungono a noi nitidi grazie alle opere realizzate.
Ed è proprio questo l’elemento fondante della pittura di Giuseppe Augusto Levis, ossia una perfetta corrispondenza con la vita quotidiana. Chi si ferma ad osservare le sue opere ha l’impressione di spiare, o di ripercorrere insieme a lui, ciò che egli vede o pensa durante le passeggiate e soprattutto nei viaggi che compie. La sua è una pittura diaristica, alla quale è stato educato da Delleani, firmando la tavoletta e indicando la data precisa, esattamente come si chiude la pagina di un diario segreto. In questo modo è possibile seguirlo nel viaggio che fa in Olanda nell’estate del 1909, quando fermandosi a Rotterdam, il 29 agosto, prima osserva le barchette ferme nel canale e poi le grandi barche nel porto. Egli ci conduce con sé, ci rende partecipi, attraverso la sua pittura, delle emozioni che ha vissuto, con tocchi di pennello che restituiscono l'atmosfera dentro alla quale si è immerso. Nessun dettaglio gli sfugge, evidenziato con pennellate precise, sicure e sottilissime. Allo stesso modo nel gennaio del 1912 ci porta in Libia, dove rimane attratto da un mondo esotico, lo stesso che era stato oggetto d’indagine di vari artisti ottocenteschi che avevano subito il fascino per l’Orientalismo. Così, ci sembra di ascoltare la preghiera degli arabi che ritrae il 13 gennaio o di sentire la calura lungo la strada di Sciara Sciat, dove si trova il 17 gennaio. La sua emozione, così come la nostra, esplode alla vista dell'intenso Tramonto infuocato dietro le tende che, con ‘mutola facondia’, si ferma ad osservare sul far della sera del 21 gennaio. Con una pennellata più nervosa e con tocco quasi espressionista, rimane attratto dalle tende dei beduini, nervosamente abbozzate sotto un cielo gonfio di nuvole.
Ci porta con sé anche in Russia nel giugno del 1913, concedendoci di osservare una Città russa di là dal fiume, il 9 giugno, e un’altra Città russa, anch’essa non specificata, il successivo 14 giugno, dove svettano cupole e campanili, case appena accennate e ponti sul fiume.
Le sue sono sensazioni tracciate con immediatezza, condizioni atmosferiche precipue che fissa nel tempo senza una preparazione di fondo e sfruttando al massimo il legno, sono impressioni che ci introducono nel suo istante vissuto, facendoci rivivere il viaggio come qualcosa che sta accadendo “qui e ora”. “In questa concretezza, in questa fedeltà alla cosa vista, foss’anche lo schizzo del maestro, possiamo individuare la differenza tra Levis e Delleani, il pregio o forse il difetto: quello stesso che lo aveva spinto a ritrarre dai reticolati della prima guerra mondiale momenti drammatici” . Infatti, a Racconigi, nel percorso della nuova Pinacoteca Civica Levis-Sismonda, è possibile compiere questi viaggi, per noi immaginari, e finanche sentirsi al fronte nel 1918 con il pittore che vive gli eventi, li memorizza e ce li restituisce con lucida efficacia e senza perdere minuti preziosi. Le tavolette che dipinge dal fronte possiedono pennellate pastose e dense, spesso impetuose, stese con sovrapposizioni e stratificazioni cromatiche che esaltano i valori atmosferici, caricandoli di pathos. Ed è questo un modus operandi che nella maturità ripete con sempre maggior forza e convinzione, realizzando capolavori silenti di grande immediatezza ed intensità.
Il suo linguaggio è mutuato sull’onda lunga del tardo romanticismo introspettivo e coniuga con coscienza la poesia degli affetti e l’indagine sul mondo reale . La vaporosità di alcuni paesaggi solitari o popolati da donne e uomini in movimento, sono impreziositi da echi di memoria, da vite silenti, dal canto della natura, dalla fatica dell’esistere. Ad esempio, la solitudine di un paesaggio di montagna, dove qualche ora prima si è combattuta la guerra, fotografa la solitudine di Reticolati al tramonto, dal quale anche noi percepiamo il freddo e la paura, riscaldata soltanto da un tiepido sole che va a dormire.
Carico di significato è il dipinto dal titolo Volo di guerra in pattuglia, nel quale Levis osserva dal basso verso l’alto gli aerei che bombardano le città. Qui l’artista addensa le ombre e gli scuri e vaporizza ogni cosa, offuscandone la lucidità e intensificando il valore di quel volo, compiuto per distruggere. Aeroplano capovolto, anch’esso su questa scia, è costruito con velature che consentono di apprezzare la perizia tecnica, laddove il relitto dell’aeroplano precipitato, si riflette sull’acqua di un fiume.
Anche i futuristi avevano guardato gli areoplani e in prima battuta avevano salutato la scoperta con uno spirito di modernità, quali strumenti utili per costruire lo spazio del futuro. L’aeropittura, infatti, in particolar modo ne restituisce gli intenti e le ambivalenti intenzioni. Ma Levis non possiede lo slancio dei futuristi, non è un interventista, è però un figlio del suo tempo che ricopre numerose cariche politiche ed è impegnato, insieme alla moglie, sul fronte sociale.
Obice chiude questo diario di guerra e restituisce un gesto reiterato per i soldati che vivono al fronte. Ma da questa esperienza egli torna nella sua Racconigi e prosegue una vita imbevuta di incontri e progetti. Passeggia nelle radure, tratteggia placidamente o nervosamente il suo sentire, fatto di piccole cose e profonda sensibilità. La sua pittura rispecchia un animo gentile, dedito al bene e a opere pie per la gente che vive a Chiomonte e a Racconigi, la quale potrà beneficiare per sempre di una pittura vera e sincera.


Antonio D’Amico
L’immane tragedia della Grande Guerra. Paolo Nesta
L’immane tragedia della Grande Guerra

Gennaio 1912. Giuseppe Augusto Levis è in Libia per alcuni mesi e lo accompagna la moglie, Maria Teresa Biancotti, crocerossina, occupata in missione sul fronte di quella guerra. In rare foto d’archivio Levis indossa la divisa dell’esercito italiano, ma pare, piuttosto che in quel viaggio in terra nordafricana avesse avuto un incarico giornalistico, in qualità di corrispondente di guerra.
Comunque – come sembrano insieme testimoniare numerose foto d’archivio – da quell’avventura, in cui quasi sicuramente rimane di fatto lontano dai campi di battaglia, ricava una serie di tavolette, una sorta di reportage pittorico, composto da immagini del deserto africano e da scene cittadine e di vita quotidiana 5. In esse predominano le impressioni luminose, l’intensità e la squillante purezza dei colori, che lo allontanano sempre più dai precedenti modi, informati alla temperie pittorica cara al suo maestro, Lorenzo Delleani e che, a partire dal 1909, in aggiunta alla scoperta delle opposte atmosfere nordiche, fiamminghe e olandesi, contribuiscono alla costruzione di una autonoma poetica. Essa si manifesterà compiutamente, prima, attraverso la registrazione visiva della tragedia della Prima Guerra Mondiale, poi, nell’ultimo capitolo della sua vicenda artistica, entro il 1926.
1915 – 1918. Allo scoppio della guerra si presenta volontario, come ufficiale di complemento nel Genio Ferrovieri, dove raggiungerà il grado di capitano e sarà insignito della croce al merito di guerra. È arruolato nel 6° reggimento, per cui disegna due cartoline colorate, quelle utilizzate dai militari per comunicare dal fronte, anzi, ‘dalla fronte’, come si diceva allora; probabilmente non manca di realizzarne una anche per le crocerossine, in cui, accanto all’immagine di un ferito in secondo piano, domina a destra una donna in divisa, che pare corrispondere nelle fattezze del volto, al ritratto della moglie Maria Teresa.
La settantina di tavolette attualmente conservate sia presso la Pinacoteca Civica di Chiomonte (TO), sia presso il Comune di Racconigi (CN) – ma molte altre ancora sono disperse in collezioni private e alcune, al momento non rintracciate, sono documentate fotograficamente nell’archivio personale – una volta ricomposte cronologicamente, consentono di delineare il suo itinerario entro le diverse aree, teatro della guerra. In gran parte sono datate, ma sovente con la sola indicazione dell’anno; tuttavia, la puntualità realistica, che è una costante di tutta la sua opera, scrupolosamente attenta ai valori atmosferici, temporali e stagionali, ci consente di aggiungere ulteriori precisazioni, che riguardano anche i diversi momenti della giornata, dall’alba, al tramonto e alle notti, improvvisamente illuminate dagli scoppi delle artiglierie.
Si comincia dal Carso nel 1915 e nel ‘16, dove tra l’altro l’artista, intorno a giugno di quell’anno, si sofferma a riflettere sulle macerie prodotte dall’interminabile bombardamento austriaco di Lucinico, alle porte di Gorizia. Verso la fine dell’anno è già in Trentino; l’Altipiano di Asiago e l’area alpina montana riguardano tutto il 1917 (a novembre è sul Monte Grappa e lungo il Piave) e la prima parte del ‘18, per poi trapassare, col 15 giugno, alla battaglia del Montello e ai territori prossimi al corso del Piave.
Pertanto, nella sua pittura a partire dal 1915 si aggiungono nuove esperienze non solo luministiche, comprese, si è detto, quelle artificialmente dilatate dal vissuto notturno, ma soprattutto quelle segnate da una dimensione esorbitante dalla normalità emotiva e percettiva, per quanto essa possa essere arricchita da suggestioni esotiche e desunte da viaggi in terre lontane. Sicuramente di fronte ai dipinti di guerra non sembra sufficiente, per comprenderne le particolari atmosfere, un approccio ad imitazione della concitata prosa futurista: “filo spinato + voragini di luci artificiali + cieli costantemente corrucciati + controluce accecante + tende infangate + lampi di esplosione + vampate d’incendi”, infatti, esse non sono che una parte di un lungo elenco di quegli stessi ingredienti che Levis impiega, ma ben differentemente, per restituirci un angoscioso clima di tragedia incombente, intrisi come sono di una intensità poetica, che ci appare piuttosto prossima, per la densità ermetica del dramma raffigurato, all’evocazione lirica di Ungaretti. Quelle tavolette sostanzialmente uguali per dimensioni – forse per trovare posto nelle cassette militari - contengono le risultanze di una analisi materica minuziosa e sorda, bruno terrosa, grigio fangosa, quasi monocroma, sovente costituita da poche varianti tonali. Il contesto è drammaticamente evocato dal contrasto tra ombre cupe e paste grigie o polverose rilevate, proiettate in avanti, verso di noi, da una fitta trama di graffiature o di inquiete sovrapposizioni di spesse sfilacciature ottenute per ripetute stesure – quasi textures – e campiture dense di vibrazioni pulsanti.
Il paesaggio, anzi la terra è costantemente dilaniata e artefatta da scavi di postazioni, reticolati, trincee. Le immagini sono dense di appunti di desolazione, infinitamente distanti e ‘altri’ da quel vissuto che il pittore, prima della guerra, aveva lungamente indagato nella rappresentazione del duro, faticoso vitalismo, necessario per sopravvivere sui monti e nelle campagne. Ma nello stesso tempo ne assumono il valore inequivocabile di inesorabile pendant e anche le stesure così frequentemente tormentate dei cieli ne partecipano e non valgono soltanto come puntuali annotazioni delle fuggevoli variazioni atmosferiche. L’opera di Levis è di per sé antifuturista, nonché altrettanto rigorosamente estranea ad aneliti celebrativi; il suo realismo tragico, privo di speranza, si sofferma attonito a contemplare il baratro della condizione umana. Quei fanti esprimono la dissoluzione della presenza umana in fantasmi, in una estrema evocazione rituale di corpi senza identità e deprivati dell’anima, sopraffatti da un cieco destino – spietata raffigurazione della “carne da cannone”, gettata allo sbaraglio, oltre i fragili confini delle trincee. La precarietà delle forme di vita organizzata sotto le tende negli improvvisati accampamenti o in baraccamenti alpini, realizzati con materiali di fortuna e sordidamente abbarbicati sul pendio della montagna, le trincee di giorno e i reticolati fanno parte di quella rassegna cupa di immagini di dolore, insieme a postazioni e a trincee al tramonto, in
cui solo per un istante pare riaffiorare un trattenuto spunto contemplativo.
Il suo lavorio di scandaglio è condotto ai margini estremi della condizione di una umanità che è appartenuta e ancora appartiene e vive entro parametri che sono piuttosto pertinenti a strutture umane, collettive e culturali, ormai destinate a scomparire, per cedere il posto ai nuovi parametri della società industriale di massa.
L’invisibilità e l’indicibilità di quanto accade intorno, generata dalla necessaria frammentazione in isolati episodi, in cui si riduce il vissuto dell’assalto nella realtà della guerra moderna, si associa all’esperienza disperata, di fronte all’inevitabile attraversamento di quel vuoto deserto, la no man’s land, che separa dal nemico.
La tragica esperienza della guerra scava nell’immaginario di Levis un solco profondo, che ci aiuta a distinguere inequivocabilmente un prima da un poi nella sua visione della realtà e, tuttavia, nella sua perdurante ricerca artistica si distingue una costante. Essa consiste nella solida vocazione realistica, che gli consente non solo di contrastare con fermezza l’irrompere di stati d’animo permissivamente nostalgici, ma soprattutto di giungere ad una reinvenzione della dimensione del sentimento. È chiaro, allora, come essa vada assumendo la funzione essenziale di nodo esistenziale, attorno a cui ruotano le ragioni profonde della sua ferma adesione al principio di realtà, in quanto idealmente vissuta in chiave di testimonianza di fede. Il suo capitolo di adesione alle istanze tematiche del simbolismo, nella nitida accezione dello spiritualismo cattolico, non corrisponde ad un atto superficialmente formale, ma esprime una tensione intima e autentica.
La meditazione sui modelli morali e sul vissuto di fede cui si ispirano perfino le sue più pacate raffigurazioni, improntate alla rappresentazione dell’universo religioso agro-pastorale, paradossalmente finisce per non differire di molto, anzi trova modo di cucirsi con le angosciose immagini ritratte nelle circostanze drammatiche della guerra. La carica di testimonianza che le une e le altre offrono di fronte all’esperienza della fatica e della solitudine, al dolore dell’esistenza e alla rassegnazione di fronte alla morte resta assolutamente e tragicamente identica. Credo che questa possa essere una buona chiave di lettura del sostrato culturale che sottende alla sua opera pittorica, che è dettata da un umanesimo all’insegna dell’impegno etico e spirituale. Esso si sostanzia nell’incontro tra istanze e modelli educativi di ferma impostazione cattolica, ma nella particolare accezione di un cattolicesimo di netta derivazione giansenista – fortemente permeato nella società piemontese tra Otto e Novecento e altrettanto ben radicato nelle famiglie benestanti - e una formazione politica di solido impianto liberale. Come già era consuetudine per il suo maestro, Levis ha costantemente considerato le sue tavolette come studi, preliminari a più grandi
composizioni, da realizzare più tardi, nella quiete dello studio. Parallelamente ad una fitta serie di opere dipinte nel dopoguerra, in cui persegue una visione radicalmente innovativa della tradizione paesaggistica piemontese, che lo pone tra i rari maestri dell’espressionismo italiano, Levis riconsidera gli studi realizzati al fronte e si dedica alla composizione di monumentali raffigurazioni della guerra; nel 1921 espone a Monza, alla mostra sulla guerra, una grande opera, intitolata Lucinico, che secondo i giornali dell’epoca è “la riproduzione perfetta della desolazione, ai piedi di quello che fu il castello distrutto”, che viene acquistata dal re, “cui ricordava l’impressione da lui stesso provata quando nelle acque del vicino torrente aveva veduto scorrere il sangue affratellato delle migliaia di italiani e di austriaci, che in quella località avevano lasciato la vita”. Il quadro viene trasferito nel 1922 al Quirinale e solo tre anni dopo portato a Torino per intercessione del Comitato cittadino promotore dell’erezione del “Pantheon ai Caduti” della prima Guerra Mondiale. Il pittore prende ancora parte alla manifestazione artistica monzese nel 1924, continuando ad esporre opere sul tema della guerra; l’evento rese allora famosi dipinti quali: Savoia!!!, L’urlo della guerra, L’albatros e Il ritorno dalla trincea. Intanto lavora ad altre grandi composizioni, tra cui Assalto al nevaio, rimasta incompiuta, di proprietà del Comune di Chiomonte, ma ora in deposito presso il Museo Nazionale dell’Artiglieria, a Torino. Al Comune di Racconigi, invece, appartengono altre tre grandissime tavole, due in parte incompiute, di cui una raffigura una folla di fuggitivi da un villaggio, devastato dai bombardamenti e dagli incendi (che sembrerebbe quasi voler riprendere il tema, che immaginiamo affrontato in Lucinico); l’altra propone un tema analogo al citato Il ritorno dalla trincea, ma ovviamente non vi coincide,
dal momento che quest’ultima composizione, essendo stata esposta, come si è detto, nel 1924, doveva essere compiuta. La terza grande tavola, di Racconigi, è invece finita, firmata e precocemente datata 1919; raffigura l’opera pietosa, svolta al tramonto, di raccolta del corpo di un soldato caduto in battaglia.
Nel dopoguerra si dedica attivamente e generosamente al sostegno dell’Associazione Nazionale Combattenti e di quella delle Madri, Vedove e Parenti dei Caduti e ad iniziative affini di carattere sociale e caritatevole. Mentre proseguono, anche dopo la guerra, i suoi impegni dettati dalla partecipazione attiva alla vita amministrativa locale e politica in ambito provinciale, accanto alla rimeditazione sugli eventi bellici, che, come si è detto, lo vede assorto nella realizzazione delle grandi composizioni su tavola, ha modo di rivisitare periodicamente quei luoghi e, in particolare, di soffermarsi tra le montagne del Cadore.
Da lì, quasi a ripercorrere l’esperienza dei suoi ripetuti ritorni “dalla fronte”, allora carico delle tavolette eseguite nelle trincee, riporta una fitta serie di paesaggi, che vanno via via costituendo, entro il 1926, un cospicuo nucleo di dipinti, in cui affiorano e si addensano, per evidenti segnali pittorici, gli intimi tormenti della memoria. Ne emergono visioni in cui la qualità stessa del paesaggio dolomitico si fa pretesto per la loro raffigurazione, e ciò grazie all’impiego di una tavolozza radicalmente nuova, ora strutturata sull’articolazione di gamme cromatiche, che, accantonate le regole dei delicati trapassi, debitori della pittura tonale, si accendono di contrasti, ottenuti con lo scontro diretto, per giustapposizione dei complementari e con la ricerca di pure suggestioni materiche. I cupi grovigli di segni – sovente graffiati con il manico del pennello dentro la viva pasta pittorica, quegli stessi con cui era già andato costruendo la resa sintetica dei reticolati e del terreno sconvolto, attorno alle trincee - si infiammano ora di colori squillanti, ora di assoluti effetti materici, che ben presto trapassano e dilagano, per opera di una complessa ricomposizione interiore, all’intera visione paesaggistica. Grazie a sapienti aggiustamenti e profondi ripensamenti, essa viene riplasmata a riguardare, cioè a riconsiderare le modalità di raffigurazione di quegli stessi ambienti alpini, di quegli scorci della campagna piemontese e persino delle vedute del natio borgo chiomontino, che già lo avevano attratto fin dai lontani esordi del suo mestiere pittorico. È ciò, appunto e se ne è già accennato, che consente di collocare quest’ultima stagione delle ricerche di Levis, quasi del tutto inedita e ampiamente trascurata nei percorsi principali della critica d’arte contemporanea italiana, all’interno del più ampio capitolo dei maestri cui si devono le esperienze di rinnovamento della pittura nei primi decenni del Novecento, e in particolare nel novero di quell’esiguo numero di testimoni che si fanno afferire sotto l’etichetta dell’”espressionismo italiano”.


Paolo Nesta “Piemontesi alla fronte / parole e immagini 1915 – 1918”
La “Scuola” del Delleani e gli allievi
La “Scuola” del Delleani e gli allievi

Avvicinare il Delleani e sentirsi attratti dalla pittura dovette essere cosa assai frequente se intorno a lui presero a dipingere parenti, conoscenti ed amici non meno di quanti, per propria natura portati alle arti del disegno, avevano pensato di eleggerlo a proprio maestro, anche se non tutti con la precoce determinatezza di Adelaide Ametis che a dieci anni appena aveva scritto alla cugina Rina Maria Pierazzi: “Voglio imparare a dipingere come Delleani”.
Naturalmente questi “ allievi intesero seguirne l’esempio e usarono per lo più i colori tipici della sua tavolozza; si servirono, come lui, di tavolette di legno (di dimensioni talora un po’ diverse, perché si adattavano alle loro cassette porta studi) e finirono col datarle, alla sua stessa maniera, precisando col pennello giorno mese e anno.
L’insegnamento del Delleani doveva avere una linea assolutamente pratica. Gli allievi si esercitavano copiando in studio i motivi delle sue tavolette, mentre d’estate sciamavano dietro a lui in lieta brigata, sui verdeggianti prati di Pollone per ritrarre lo stesso paesaggio, ognuno secondo le proprie forze, ognuno dal suo angolo particolare.
Ciò che altre volte potè accadere, in più ristrette escursioni, con la nipote Nina, anche a Roma, o con la contessina di Bricherasio (a Fubine, nel Monferrato, come nel suo castello di Miradolo), nel giardino di casa Piacenza, a Pollone, con Livia Drago Piacenza; nel biellese e nella Valle d’Aosta col Bozzalla e col Levis.
“Avevo cominciato a dipingere il salice piangente in fondo al parco di Miradolo-è stato scritto e firmato da Sofia di Bricherasio sul verso di una tavoletta, quasi per dare al curioso pro memoria tutto il senso di una dichiarazione di autenticità – quando giunse il mio maestro (Delleani) e fu così poco soddisfatto che si fece dare la tavolozza, disfece quanto avevo fatto e terminò lo studio in meno di un’ora. Mi disse allora ridendo che se volevo potevo riprendere il mio posto… S. di Bricherasio”.
Non importa stabilire qui quanto della pittura dell’allieva sia rimasto sotto le pennellate del maestro: lo si riferisce soltanto per documentare in che modo si svolgesse talora l’insegnamento del Delleani inteso a rivelare essenzialmente, in prima persona, i misteri dell’arte e a comunicare i segreti del mestiere ch’egli aveva scoperto di fronte al vero- che giustamente Bozzalla dirà “Sua unica poesia, ed unico suo maestro” – abituando l’occhio “rapace” ad una scelta continua di fronte al motivo e ad una ricostruzione della realtà in un’immagine mai aliena da un autentico rapporto con la fantasia. E se, nel momento in cui prendeva il posto dell’allievo, il Delleani non voleva offrire che un modello di comportamento e un saggio d’esecuzione, non era raro che si lasciasse poi prendere dalla pittura, facendone di mano in mano che procedeva in quelle sue “correzioni” – almeno in parte cosa sua.
Né era del tutto eccezionale il caso in cui l’allievo, o l’allieva gli chiedesse infine un segno di quel suo intervento: una firma, una sigla, anche soltanto la data di suo pugno; l’avallo d’un autografo, insomma, destinato col tempo a trasformarsi in un’autenticazione estesa all’opera intera per quanto essa continui a non nascondere il suo peccato d’origine.
Non sarebbe stato certo il Delleani a dar peso agli aspetti negativi connessi, alla lunga, con un tal modo di procedere che poteva se mai far parte delle libertà ch’egli amava prendersi, libero com’era dagli impegni di un insegnamento ufficiale, anche se per i buoni rapporti che aveva mantenuto con l’ambiente, fin dal 1872 l’Accademia l’aveva chiamato a far parte delle commissioni per i concorsi annuali dell’Albertina che l’annoverava fra i soci onorari residenti in Torino.
Il maestro doveva rinascere in lui piuttosto durante l’estate, quando guidava gli allievi di fronte al vero, rivelando loro come non sarebbe stato difficile trarre ispirazioni dalla realtà più immediata, anche da quella che non fosse stata in particolar modo “pittoresca”, poiché era convinto che non potesse esservi motivo immeritevole della sua attenzione, tant’era la sicurezza e la confidenza ch’egli dimostrava con la natura.

Angelo Dragone, da “Delleani, la vita, l’opera e il suo tempo”.
Cassa di Risparmio di Biella, 1974.
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